lunedì 16 ottobre 2017

Tra l'alba e l'aurora


Albeggia appena quando il rintocco delle campane risuona sei colpi ben distinti, più quello lieve della mezz’ora, quando mamma Palmina, con la solita operosità, spazza il tratto di strada davanti alla sua casa. Passa con rancore la scopa di saggina, come se da s’imperdau volesse rimuovere tutte le amarezze della terra e, più che altro, la faccia di quel maledetto che le aveva procurato tanto tormento.

Poi, con uguale risentimento, scende spiccia i cinque gradini di granito, per dare una bella sfregata a tutte le ragnatele. Alla destra, un fusto attorcigliato di uva rosata aggrappa i viticci tenacemente al tutore e, coi lunghi tralci coperti di pampini verdi, disegna al di sotto una sagoma frastagliata, facendo ombra alla ruota solitaria. Babbo Dino l’aveva posata tra due ceppi paralleli ed ogni tanto, mentre si riposa, fa colare pian  piano un filo d’acqua con un vecchio barattolo di conserva di pomodoro, e pedala rapido facendola scricchiolare. Nonostante sia disarticolata come i fianchi delle donne anziane, con quella mola riesce ad affilare i coltelli che usa mamma in cucina, il trincetto per gli olivastri, la falce per il fieno e, neanche a dirlo, anche gli attrezzi del nostro vicinato e del vicinato più in là. Nell’angolo sinistro dei quattro muri di granito, compare un rubinetto in ottone lucido, che rifornisce il lavatoio in graniglia consumata, sempre colmo di biancheria.

Ama la pulizia mamma Palmina, e raramente la trascura, neppure quando le vicine la invitano a intrattenersi con loro per le consuete chiacchiere.



[1] Imperdau:Selciato

Se i muri parlassero, ne avrebbero da raccontare


I profumi intensi rendono le mie gambe molli. È così che l’aria mi stordisce sulla panchina, mentre i miei figli giocano nei giardinetti. Con tutto quello che si vede al telegiornale, vivo con apprensione costante, per questo li tengo sempre sotto controllo. I bambini con le guance arrossate ruotano sulla piccola giostra che cigola a ogni giro. Instancabili nel salire e scendere o passare di là, al grosso scivolo rosso. Le braccia infagottate nei giubbini variopinti da ideogrammi giapponesi sembrano salcicce. In cima ai gradini dello scivolo si spingono e si strattonano atterrando sulla sabbia.

Nonostante la mia giovane età, non riuscirei più a star dietro alla loro euforia, così li osservo da lontano mentre cerco di rilassarmi leggendo un libro. Puntualmente, il torpore mi tradisce ed il libro aperto scivola lentamente dalle mani, facendomi perdere il segno, così i bambini si sentono finalmente liberi di entrare al bar di Pagano dove quei giochi infernali, che li agitano tanto da alterare il sonno, sono alla loro portata. In particolare a Lorenzo, che fra i due è il più appassionato di videogiochi, capita di svegliarsi in piena notte di soprassalto.
«Ammazzalo, ammazzalo»

Sono pericolosi. Non sanno più cosa inventare. Certamente al tempo in cui ero bambina, questi giochi non esistevano. Tutto era più semplice e soprattutto utile, per tenere a bada l’emotività dei bambini. Si usava la concentrazione o l’abilità fisica, piuttosto che stimoli martellanti! Ogni tanto sollevo gli occhi verso l’orologio del campanile che non dista tanto lontano.
«Uff.»

È quasi ora di rientrare a casa, ma le mie gambe non seguono il pensiero. Indugiano in un torpore persuasivo dove sento affiorare un sorriso, mentre fuggo da tutt’altra parte, in un altro periodo della mia vita. Vorrei diluire il tempo a piacimento per potermi crogiolare nella nostalgia di un passato, che il tempo non è riuscito a scalfire. Mi abbandono, scossa da un leggero fremito che mi trascina nei primi anni Sessanta. Alla mia infanzia nel paese d’Ilbono, In Sardegna.

Chiamare strada quella che, scapicollandosi da metà paese, va in giù ad intrufolarsi nei piccoli orti di “binja de ‘omu” e appena oltre in su “fossu de Giaccu”, sarebbe stimarla troppo. È larga giusto il tanto da far passare un carro e pavimentata con ciottoli di fiume, tenuti in ordine dalla terra compattata, e merita appieno la vecchia denominazione di via Rompicollo (poi convertita in Giuseppe Verdi).

 Ci sono anche le case delle galline e dei maiali, ma direi che quegli animali rischiano grosso in quei muri mal messi, con le travi sempre in bilico e le finestre scardinate che lasciano buchi così grossi da sembrare bocche sdentate pronte ad ingoiarti. Eppure è fantastico giocarvi. Le stesse abitazioni sono scalcinate; mostrano frammenti di sassi incastrati sulle pareti non proprio a piombo ed i tetti, a livelli sfalsati, che seguono l’andamento della discesa, sono coperti da vecchie tegole brune, tenute salde da grossi sassi.
«Se parlassero i muri, ce ne sarebbe da raccontare... eh!»


Non la più bella, ma la più coraggiosa


È un cubo squadrato di blocchetti appena spruzzato di malta, il dieci di via Verdi, e si trova circa duecento metri più in basso dello stradone che penso porti senz’altro a Roma, mentre vicino, nella via di casa mia, sarà passato senz’altro Giuseppe Verdi. Non vedo altro motivo per cui debbano avere quei nomi! La casa di nonna Giuannica si trova ancora più giù, nell’ultimo cortile della via san Giovanni, il patrono della chiesa principale. In fronte a s’intrada, nel muro a secco che separa la propria casa dall’abitazione di sua cugina Virginia. Sbucano, tra un sasso e l’altro, piccoli ciuffi di ambrosia e tralci di rovo ricolmi di more selvatiche. C’è da graffiarsi a prendere le migliori.

«Peccato che quelle più grosse e nere siano sempre nei cespugli più alti.»

Accanto c’è l’abitazione di zia Priama, sorella di nonna Giuannica. La casa è delimitata dallo spazio dove ci sta, “esatto esatto”, il carro di mio nonno. Con un po’ di fantasia, anch’esso è un posto speciale per giocare anche se, per dirla tutta, nonno Battista non è d’accordo. Bisogna andarci quando lui è lontano, ed io mi ci trovo spesso con Angela, la mia amichetta che abita a metà strada. Per fare il gioco del carro, occorre essere in tanti, perché, mentre uno di loro sta seduto in cima alla scala, dove si attacca il giogo, nell’altra estremità, composta da tre assi lisce – che serve da sedile al contadino – ci si deve appoggiare il gruppo dei bambini, per fare da contrappeso alla punta del carro. Mi piace sedermi in cima, mi sento importante quanto un prode condottiero. Certo, però, che fa paura l’attimo in cui si sta sospesi attendendo che gli amichetti saltino di colpo, e la scala del carro precipiti schiantandosi a terra con un tonfo rumoroso. Mi tengo fortissimo per non cadere, orgogliosa di superare quella prova.
«Se anche non sono la più bella, sono però la più coraggiosa.» 

Non finisce sempre in modo divertente, certe volte a causa dei lividi da capitombolo, altre per allarmi improvvisi, come quando nonno ritornò improvvisamente a casa, freddando il sapore delle mie vertigini. Un vero terremoto. Mi trovavo in cima contenta e spavalda, quando ad un tratto vidi i miei amici impallidire. Girandomi lo vidi che mi fissava, come fa la poiana con la lucertola. Di botto la presa delle mani girò a vuoto facendomi vacillare malamente.

«Che cosa state facendo? Ma tu guarda questi bambini disubbidienti! Mirella, scendi giù, che con te facciamo i conti.»
Aveva puntato l’indice verso terra aggrottando le sopracciglia.
«Mamma mia quant’è brutto quando fa così!»
Non avendo scelta, ero scesa, aiutata da lui, mentre le altre bambine furono scacciate in malo modo. Quella volta mi indispettii parecchio, fui l’unica a prenderle.
«Gli attrezzi vanno rispettati, sia quando io sono presente o meno. Nessuno ce li ripagherà, se li rompete. E non lo ripeterò più.»
Ci fu ancheuna ulteriore “aggiunta” quando mi riaccompagnò a casa, da parte di mia madre che non riusciva a farne bene di me: così diceva scuotendo testa e mani.



[1].  All’entrata .

Memorie dall'Ogliastra...


Sbircio ancora una volta l’orologio rendendomi conto di quanto sia tardi. Chiamo i bambini che, mai stanchi, corrono a destra e sinistra. Non è tanta la differenza d’età tra me ed il mio primogenito Lorenzo. Diciotto anni appena. Ero davvero giovane quando mi sono sposata e di certo non ero stata allietata da oro e danari ma, colta dall’amore ad appena sedici anni, mi sembrava di essere matura per il grande passo.

Avevo sete di situazioni nuove, di nuovi ambienti e ancor più desideravo vivere le esperienze in prima persona, allontanarmi un po’ da mia madre. Il paese si era evoluto, e tante situazioni avevano preso il sopravvento disorientando la generazione dei miei genitori, che dalla severità più assoluta stava passando a un permissivismo che mai avrebbe immaginato. Mamma Palmina non voleva ancora cedere il passo a questa evoluzione, ma concedeva piccole dosi di rinnovamento. Babbo Dino aveva comprato, se non la prima in assoluto, la seconda Mivar posseduta ad Ilbono, e da quel particolare contenitore, stranamente piccolo,uscivano le melodie di Nilla Pizzi, Claudio Villa e Orietta Berti che piacevano tanto ai miei genitori. Cantavano dell’amore che ingentilisce l’uomo quando deve conquistare la donna, ed altrettanto spesso parlava di amori incompresi o dibattuti. Ben presto queste cedettero il passo alle canzoni inneggianti l’amore palesato, alla liberazione del desiderio ed al femminismo che buttava alle ortiche il senso del pudore.

Questa liberazione raggiunse il massimo nei primi anni Settanta, quando iniziai a vestire con jeans a zampa e le magliette che arrivavano appena all’ombelico. L’amore non era più qualcosa di segreto,ed era gridato ai quattro venti dai vari movimenti hippy. Noi ragazzine coglievamo con enfasi l’idea femminista che bussava alle porte, nonostante lo sbraitare degli adulti. Magari fu solamente il portare la minigonna e uscire alla sera fino a poco dopo il tramonto, ma comunque era stata una conquista impensabile.

La percezione del mio paese che, fino ad allora, aveva avuto come punto di riferimento (e come fonte del sapere solo la Sardegna), cambiò: prese velocemente un’altra consapevolezza allargando gli orizzonti. Quando mi trovavo a casa da sola perché i miei erano impegnati in campagna, la manopola della radio impazziva tra le mie dita. Un instancabile cambiar canale che saltava pari pari il giornale radio, fino a sentire la Vespa di mio babbo che rientrava.

Le orecchie frastornate dai nuovi gruppi musicali stimolavano l’immaginario. facendoci mettere in discussione i valori e le valutazioni sulla vita. Oltre che un’evoluzione veloce ed in costante variazione, i figli nati in quel periodo furono condizionati dai gusti e dalle opinioni che arrivavano forti, anche in assenza di vento, tra i mandorli ed i ciliegi del piccolo paese.
La radio fu presto soppiantata (e pure i dischi di Claudio Villa e Nilla Pizzi) dal giradischi, che babbo Dino riponeva sopra la credenza della cucina. Lo prendevo con cautela e vi facevo girare Lucio Battisti, i Nomadi ed altri gruppi in voga. Arrivarono anche i Beatles dalla lontana Inghilterra, («ma dove sarà mai questa Inghilterra?» Si chiedeva mamma Palmina) e i Rolling Stones. Tutt’oggi, nonostante la maternità precoce e le problematiche della vita abbiano appesantito i miei pensieri, sento fremere le gambe quando ascolto la musica che mi accompagnò dalla gioventù all’età matura. Quanti privilegi in più rispetto a mia madre! E quanti rispetto a mia nonna Giuannica! Povere donne, imbrigliate da nodi antichi ed indissolubili.

Su balente


Nonna Giuannica si era sposata a sedici anni,ma fisicamente ne dimostrava tredici. Conosceva molto bene le privazioni, ed ignorava totalmente gli agi. Non erano certamente tra i più poveri in quel paesello di poche anime, ma spesso non sapevano cosa mettere sulla tavola. Mai un biscotto, mai un amaretto. Solo qualche fico, conservato sotto chiave in cantina, oppure il piccolo furto di un chicco d’uva, che appassiva all’aria nel sottotetto incannicciato, addolcendo i giorni della sua adolescenza.

La famiglia aveva la terra, però andava arata e seminata, se si voleva raccoglierci qualcosa. Per quanto avesse un’ottima abilità contadina, al mio bisnonno e padre di Giuannica, riusciva davvero pesante applicare la costanza alla zappa. Giuanni Loi, al pari di quelli che non conoscono i morsi della fame per aver la fortuna di essere nati negli agi, nella sua vita aveva usato e abusato di quanto la natura lo aveva dotato alla nascita. Fece l’errore di dar retta ad un gruppo di scapestrati, affiatandosi ad essi fino al punto di sentire l’odore della galera. Una strada errabonda e sconsiderata.


Non c’era scorribanda che non lo attraesse. Complici le notti e le cantine in cui si bagnavano la gola, tutto diventava attraente e divertente. La balentia  era il suo forte, ed il gusto di farla franca era il sale delle sue giornate, noncurante della famiglia che lo attendeva tranquilla ed incosciente a casa. Sconsideratamente, non gli era mai balenato per la mente che, quando si è abituati a tessere trappole, si rischia di cascarvi dentro. Così era stato, sfortunatamente per lui.I suoi compari, forse per caso o forse perché traditi al vino, avevano fatto in modo di accollargli la responsabilità di un furto, sollevando se stessi dalla colpa. Lui, fesso tra i fessi, rimase incastrato nel suo bighellonare borioso.

Su para limpiu

A cavallo tra la prima figlia e la terza era nato un bel maschietto. Bisnonna Felicita si era rallegrata, due braccia forti sarebbero servite per riscattarsi dalla miseria. Tuttavia la malasorte se l’era preso velocemente come l’aveva portato, ed erano passati ormai tanti anni.

Le ragazze, per quanto educate, non le si poteva mandare sotto padrone, perché si sa che fine avrebbero fatto. Rientravano a casa col ventre gonfio di promesse non mantenute e... pure d’altro. Per non incorrere in quell’affronto e nel seguente vilipendio a vita, nonna Giuannica, zia Priama e zia Emilia erano cresciute nei patimenti.

Quando aveva bussato alla porta su para limpiu con l’incarico di domandarla in sposa per Battista, a bisnonna non era parso neanche vero.Una bocca in meno da sfamare delle quattro, contando se stessa. Felicita di nome ma non di fatto, non vedeva altre vie d’uscita tranne quella di dare in sposa una figlia.

Inoltre, proprio in quei giorni un’ennesima avversità si abbatteva su di loro. Giusto la settimana precedente erano tutte soddisfatte perché stavano arrivando i giorni della raccolta dei fagioli, e l’annata era stata piuttosto generosa.

Pietoso e di buona volontà era stato anche il loro vicino Periccu, che aveva rinunziato al sonno per vigilare i bei filari in cui calavano copiosi i lunghi fagioli screziati di violetto, in verità molto appetibili anche per chi soffriva di mal di schiena ed allergia alla zappa.

La notte precedente alla raccolta, il vicino era stato ringraziato per la cortesia, con la promessa che sarebbe seguita anche una gratificazione economica dopo la vendita dei legumi. Lui si era risentito un pochino, poiché aveva lavorato solo per compassione e rispetto verso quelle donne sole, e non per esser retribuito. Felicita per una volta nella vita si era dovuta ricredere. Al mondo esisteva qualcuno sensibile, non solo carogne. Tuttavia, le donne non poterono mantenere il proposito.

Qualche sciagurato – sì, sciagurato, perché in altro modo non si può definire colui che s’approfittò di loro – appostato in attesa del momento propizio non era passato dal varco d’ingresso del terreno, bensì (facendosi beffa del gentile tutore) aveva slegato i buoi nel punto nascosto dietro il pendio, al lato opposto dell’appezzamento, lasciandoli liberi d’intrufolarsi nei lunghi filari. L’infingardo, lasciò vagare le bestie fino a che non furono gonfie da scoppiare. Il giorno dopo, avrebbero avuto parecchio da ruminare.


mercoledì 11 ottobre 2017

Maledetti sennores



Nel paese era iniziata la posa della rete idrica da oltre un anno e Palmina aveva sperato che fosse una cosa rapida. Sarebbe un enorme aiuto per lei usufruire dell’acqua corrente, considerato lo stato in cui si trova, ma deve attendere ancora. Non ci si accorge di quanto sia importante qualcosa, finché non conosciamo mezzi più pratici ed efficaci.

La ditta che traccia il canale per la tubazione con un rudimentale scavatore, è arrivata dal continente e ha numerosi operai, tuttavia il lavoro va a rilento, presentandosi lungo e laborioso a causa del terreno roccioso. Nelle vie c’è materiale d’ogni genere, ed anche nei cortili, dove ogni proprietario scava da sé il canale per allacciarsi alla tubazione principale.

Circa metà del paese è provvista di rubinetti e tubi, ma l’acqua potabile arriva solo fino alla sua casa natia: nel vicinato di Palmina ancora nulla.

Non si reca da sua madre per fare il bucato perché quel lavatoio è già ricolmo fino al bordo. Cerca di arrangiarsi ancora per un poco consolandosi del divenire; se non è oggi sarà domani. Avrà anche lei tutta l’acqua che le serve e forse anche lei, come Tzia Genesia, continuerà a riempire le brocche per il timore che quel miracolo possa finire all’improvviso. Anche la via Rompicollo, una fra le più danneggiate ed in pendenza, presto sarebbe stata dotata della rete idrica, e sarebbe stata ribattezzata dando il via al cambio della storia.
Fino ad allora c’erano state solo le sorgenti incanalate fino agli abbeveratoi per le bestie, che continuavano a gorgogliare in vari punti dell’abitato.

«Stai calmo, almeno tu. Tutto si aggiusterà.»

Con una mano tiene ferma la bacinella sul capo e con l’altra sorregge il fianco come se l’aiutasse a sorreggersi. Si accarezza la pancia in modo protettivo come a volere tranquillizzare il piccolino all’interno, e rimugina pensierosa, mentre si accoscia gravando sulle ginocchia per metter giù il carico. Inginocchiata in un punto in cui il fiume aveva scavato un piccolo avvallamento, Palmina sfrega i panni con più vigore degli altri giorni. Tenere occupate le mani le dà la sensazione che non resti spazio per i pensieri irosi, che corrono sempre dove fa più male.

Qui può farlo senza remore. Lascia che le lacrime cadano a rivoli fra le bollicine del sapone,insieme al risentimento verso chi ha lasciato Antoni in balia di se stesso in quella terra sconosciuta e forestiera.
«Avrebbero dovuto dare più attenzioni a quello sprovveduto di mio fratello, almeno il primo periodo, sino a quando non avrebbe conosciuto il nuovo territorio. Maledetti ricchi, senza alcun riguardo per i loro servi. Chi ci rimette siamo sempre noi.» Nonostante la vista appannata dalle lacrime copiose, i panni sono più lindi che mai.

Tra l'alba e l'aurora

Albeggia appena quando il rintocco delle campane risuona sei colpi ben distinti, più quello lieve della mezz’ora, quando mamma Palmina,...